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DAL RITMO MATERICO ALLA SCHEGGIA DI LUCE 

FRANCESCO RAMPIN

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DETTAGLI

Autore | FRANCESCO RAMPIN

Curatore | ARCH. MATTEO RAMPIN

Anno edizione | 2007

In commercio Aprile 2007

Pagine | 92 p., ill. , Rilegato

­­FRANCESCO RAMPIN | DAL RITMO MATERICO ALLA SCHEGGIA DI LUCE

 

Ognuno di noi ha provato il desiderio del “cambiamento di contesto”: i dadaisti hanno soltanto teorizzato ed esposto ciò che chiunque sia dotato di sensibilità - e quindi non sia stato ottenebrato dall'ipnotismo telemediatico - ha sperimentato in diverse occasioni, e più di frequente a contatto con la natura. Quante volte, osservando un ciottolo levigato dalla risacca sulla battigia o la radice bizzarramente contorta di una vecchia pianta, abbiamo esclamato: “sembra una scultura!”. E non è escluso che alcuni maestri (come Brancusi, il suo erede Arp e l'epigono Viani) si siano direttamente ispirati alle forme di alcune pietre trova- te sul greto di un torrente. Non mi meraviglierei se un giorno, tra le carte ammuffite di una soffitta trevigiana, venisse ritrovato un appunto di Arturo Martini in cui il grande innovatore della scultura italiana del Novecento rivelasse che la sua Donna che nuota sott'acqua - uno dei massimi capolavori dell'ar- te plastica - altro non è che l'ingrandimento di un sasso pescato tra le ghiaie del Piave.

La natura ha sempre rivestito una funzione determinante sull'espressione artistica, ma il progredire delle tecniche e delle speculazioni filosofiche ha modificato i ruoli in commedia. Fino all'invenzione della fotografia la natura apparteneva alla gamma dei soggetti, in seguito si è spostata sul fronte dei moventi e attualmente ritorna in primo piano a causa dell'allarme ambientale. Comunque rimane in scena da protagonista. E tuttavia, ieri come oggi, non è sufficiente la sensibilità nei confronti dei meravigliosi fenomeni naturali a determinare le con- dizioni del “fare arte”. Vi sono altri parametri da rispettare, altri e ben più ardui esami da superare.

La prima casella del gioco dell'oca chiamato “arte” impone che l'aspirante possegga capacità immaginativa, la seconda che sia dotato di talento (la classe non è acqua, e via con le frasi fatte), la terza gli chiede una buona cultura di base, la quarta lo obbliga ad impegnarsi nella progettualità e la quinta lo sotto- ­pone all'esame del mestiere. Quando i dadi gettati dal concorrente assomma- no ad almeno cinque punti la partita può incominciare, altrimenti si riparte da zero.
Se viene a mancare anche uno solo degli addendi, il risultato può essere divertente, creazione piacevole o fantasiosa, provocazione ironica, ghiribizzo. Ma non è opera d'arte. Purtroppo le tendenze che si sono imposte in Italia, attraverso alcuni media di nicchia e le manifestazioni istituzionali, prescindono da almeno uno di tali fattori: il mestiere. In altri comparti nessuno oserebbe mette- re in discussione il ruolo indispensabile delle pratiche professionali. Come potrebbe creare un romanzo lo scrittore illetterato? Od operare il chirurgo privo di nozioni anatomiche? O costruire l'architetto ignaro di regole statiche? Fino alla metà del secolo scorso anche le arti visive assumevano il postulato detta- to da Pablo Picasso, il quale - secondo l'autorevole testimonianza di Gertrude Stein - diceva che “la pittura è sempre stata un mestiere”. A maggior ragione la scultura: poiché deve fare i conti con la terza dimensione e con le tecniche di lavorazione dei materiali, è un mestiere che richiede spiccate attitudini costruttive e manualità.

Francesco Rampin da molto tempo ha superato la quinta casella del gioco dell'arte. Con la sua straordinaria invenzione del porfido dipinto ha già totalizzato parecchi punti e quindi si trova in vantaggio rispetto al plotone assiepato intorno al tavolo verde (è il colore delle tasche della maggior parte degli artisti, nono- stante l'opposta convinzione di Giancarlo Politi). Egli infatti, oltre a possedere i cinque requisiti basilari necessari a produrre un oggetto fatto ad arte, è dotato di una capacità visionaria che gli consente di intuire la presenza di una forma virtualmente significante anche nella materia più ottusa. In una recente opera, intitolata Rabdomante, vedo il suo autoritratto: l'artefice impegnato a scovare - eroe solitario al centro di un algido mondo programmato - la polla pura e vitale situata nelle profondità della memoria.

Rampin viene dalla pittura, dove ha coltivato una lunga ricerca sul colore-luce.

Un'esperienza che ha traslato nel passaggio all'arte plastica, escogitando un procedimento - quello della dipintura della pietra - che appare inusuale nella tra- dizione recente, ma rimanda ad echi lontani nella storia. Oggi tutti i reperti museali e le vestigia dei templi greci ci affascinano anche per la loro candida eleganza: l'assenza di cromìe conferisce agli antichi marmi un'aura misteriosa che il nostro strabismo intellettuale collega alle grandi fonti della filosofia classica e ci suggerisce fallaci visioni di un mondo meraviglioso e incontaminato, popolato di mitici pensatori. La realtà era ben diversa, ma per dimostrarlo non occorre consultare tomi, trattati e fonti documentali; basta un solo, folgorante e distruttivo flash-back immaginario: il panorama dell'Acropoli con il frontone del Partenone ed ogni altra decorazione (statue, cariatidi, capitelli) dipinti con sgargianti colori. Chiudete gli occhi, ripercorrete le sale del Louvre fino alla Venere di Milo e poi apriteli: cosa provereste se, in luogo dell'odierna, bianca e suadente apparizione vi si presentasse l'originale, completa non solo degli arti ma della sua tinteggiatura naturalistica?

Alla luce di questa “eresia”, l'operazione compiuta da Francesco Rampin appare carica di molteplici valenze, adeguatamente rilevate dagli autorevoli studiosi che si sono interessati al suo lavoro in occasione di precedenti esposizioni: Virginia Baradel, Giorgio Di Genova, Luigi Meneghelli, Giorgio Segato ed altri. Non è mia abitudine allungare il brodo con ingredienti altrui, perciò mi limito a segnalare alcune personali osservazioni sul percorso compiuto dall'artista padovano nell'ultimo decennio, documentato per sommi capi in questa mostra:

1) Lo scultore si rifornisce di porfido dalle cave di Albiano, sopra Pergine Valsugana, dove viene ricavato in blocchi, lastre e spezzoni. Rampin si avvale di ogni tipologia del taglio, a seconda del progetto che sta sviluppando. Nelle opere d'impianto strutturalista: Natura morta per Albiano , Senza titolo, nelle composizioni (Con cerchio, A croce, Quadra), nella Finestra con grata e nel Totem (tutte del 1999), così come nel ciclo Porte e finestre del 2002, il materiale viene utilizzato in forme geometriche primarie, al servizio di un impianto grafico molto preciso e quasi austero. Negli esempi citati, ai quali si può aggiungere l'icastico Omaggio a Giorgio Morandi (2000) in cui al porfido si aggiungono il granito ed altri marmi, la griglia portante è costituita da elementi in legno bruciato che determinano uno scatto percettivo, a vantaggio della marezzatura delle pietre, sottolineata dal colore.

2) Talora può accadere che il progetto nasca dall'osservazione di una particolare forma casualmente scaturita dall'accostamento di profili scheggiati, come nel Piccolo Totem del potere (2002), nella Coppia rega- le, nel Doppio ritratto (2004) e nella Composizione vichinga (2005).

3) L'effetto spiazzante e quasi ipnotico della vernice industriale spruzza- ta sulla pietra scabra raggiunge l'acme nelle opere in cui la struttura por- tante è realizzata in metallo e svolge un ruolo apparentemente gregario: Quadro alla finestra (2002), i Quadrati a dondolo del 2003, le Composizioni con rettangolo del 2005.

4) In alcune opere la scommessa dei materiali si gioca sull'equilibrio tra invenzione formale e soluzione tecnica. E' questo il caso di Composizione con obelisco, della Meridiana, dei Guardiani dell'Eden (2004) che genialmente capovolti diventano l'Albero del bene e del male (2005) e, ancora, del Diapason (2006).

5) Quando si affaccia il motivo dell'intrusione di un elemento naturalisti- co (un ramo contorto) il porfido colorato diventa fulcro intorno al quale ruota l'illusione figurativa: Germogli (2004), Danza del cobra (2005), Violinista dell'universo (2006).

6) Il confine tra le due arti diventa assai labile - tanto che alcune opere potrebbero essere definite “pittosculture” - nei casi in cui l'apporto cromatico diventa determinante nel concorrere alla definizione del soggetto, come nelle recenti Grande vela, Maternità cosmica e, soprattutto, nelle

7) Non manca l'aspirazione alla neomonumentalità, riscontrabile in quasi tutti gli scultori di vaglia. La terza dimensione ama gli spazi aperti, anzi: punta all'interazione con il contesto urbano. Opere come Olocausto (2003) e Omaggio a Claude Monet (2006) potrebbero ben figurare in aree pubbliche, costituendo segnali visivi di grande intensità.

Al tirar delle somme, un incontro - quello con Francesco Rampin - che rivela una personalità autonoma, attenta agli eventi della storia e della cronaca, partecipe dei grandi mutamenti epocali, eppure solidamente legato ad una corretta interpretazione delle immutabili ragioni dell'arte, che è un gioco dell'oca maledettamente serio anche quando veste del sorriso di un colore la dura roccia carpita alla montagna.

 

Venezia, Marzo 2008                                                                                                                                                                                               Franco Batacchi

 

 

 

FRANCESCO RAMPIN | FROM THE RHYTHM OF MATTER TO A SPLINTER OF LIGHT

 

Every one of us has felt the desire to “change context”: the Dadaists only theo- rized and exposed what every sensitive person – that is those not already blinded by the media’s hypnotism – has experienced during different occasions, but more frequently when communing with nature. How many times, strolling along the water’s edge, have we come across a pebble polished by the undertow or seeing an oddly twisted root of an old plant have we exclaimed:” It seems like a sculpture!”. And it is not to be excluded that a few of the masters, like Brancusi, Arp his heir and Viani, his imitator, were directly inspired by some rocks found on a dry river bed.

I wouldn’t be surprised if, one day, in an attic in Treviso, amongst mouldy papers a note by the great innovator of Italian sculpture of the 1900s, Arturo Martini, could be found revealing that his Donna che nuota sott’acqua, is nothing more than an enlargement of a rock fished from amongst the gravel of the river Piave. Nature has always had a determinant function on artistic expression. However its role has been modified by the progression of techniques and philosophical speculations. Due to the environmental crisis, nature is now reclaiming the lea- ding role it lost when photography was invented. Yet an acute sensitivity to natural phenomena is not enough “To make art”. There are many more parame- ters to respect and many more obstacles to overcome.

In the “game of art”, like that of snakes and ladders, the first box implores the aspiring artist to be imaginative. The second box requires talent, the third a solid cultural base, the fourth the obligation to dedicate one’s self to the work. The fifth and last box subjects the neophyte artist to the rigorous examination of his profession. If anyone of these elements is missing, the result might be enjoyable, even pleasing, but it would not be a work of art. Unfortunately in Italy, the artistic tendencies have been dictated by communication niche and large exhibitions, sacrificing one of these such factors: craftsmanship. In other sectors, no one would question the indispensable role of professionalism. How could an illiterate author write a novel? Or a surgeon operate without knowing anatomy? Or an architect design ignoring static rules? Until the first half of the last century, also the visual arts followed the postulate dictated by Pablo Picasso, who, according to Gertrude Stein’s testimony, said that “painting has always been a profession”.

This is even more relevant to sculpture: since it requires the third dimension and the techniques necessary to work with different materials. It is a craft that demands extreme dexterity and constructional aptitudes.
Francesco Rampin superseded the fifth box in the game of art long ago. Due to his extraordinary invention of painted porphyry he has already acquired a lot of points with respect to anyone else playing the game. In fact, in addition to possessing the five basic requirements necessary to produce a work of art, Francesco Rampin is gifted with a visionary ability to perceive the presence of a significant form even in those objects that to others are insignificant. In one of his latest works entitled Rabdomante (Diviner), I see his selfportrait: the craftsman committed to the discovery of a pure and vital pool hidden in the deepest depths of the memory – like a solitary hero in the centre of a frozen programmed world.

Initially as a painter Francesco Rampin cultivated a long research on colour- light. Then he carried over this experience to plastic art , employing the technique of painting stone, that seems unusual now but dates back to ancient times. Today all the vestiges of Greek temples and other findings fascinate us with their snow-white elegance: the total absence of tones confers a mysterious aura to the ancient marble that our intellectual strabismus connects to the great fonts of classical philosophy and suggests fallacious visions of a marvellous uncontaminated world populated by mythic thinkers. The reality is markedly different, but to demonstrate this one does not have to consult tomes and documents; it is sufficient to imagine the Acropolis with the front of the Parthenon and every other decorations (statues, caryatids, capitals) painted with bright colours. Close your eyes, travel through the rooms of the Louvre until you’re in front of the Venus de Milo, now open them: what would you feel if, instead of the actual white persuasive state it presented itself in the original form, not only with its limbs but also its natural tones?
In light of this “heresy”, the accomplishments of Francesco Rampin appear charged with multiple valences, properly highlighted by authoritative scholars who reviewed his work during former exhibits: Virginia Baradel, Giorgio Di Genova, Luigi Meneghelli, Giorgio Segato et al. It is not my habit to quote others, therefore here are my personal observations on the path taken by this artist from Padua during this last decade, summarily documented in this show:

1)The sculptor gets his porphyry from the mines in Albiano, near Pergine Valsugana, where it is mined in blocks, slabs and crops. Rampin employs all types of cuts, depending on the project he is developing. The material is utilized in primary geometric forms, based on a very precise, almost austere, graphic design in the works of a structuralist framework: Natura morta per Albiano, senza titolo, in the compositions (Con cerchio, A croce, Quadra), in the Finestra con grata and in Totem (all in 1999), just like in the series Porte e finestre (2002). In the cited examples, to which we can add the figurative Omaggio a Giorgio Morandi (2000) where granite and other stones were mixed with the porphyry, the bearing structu- re is made up of elements of burned wood that produce a perceptive trigger, exalting the marbling in the stones, underlined by the colour. 2)Sometimes the project is inspired from an observation of a particular form casually sprouting forth from splintered contours, like in Piccolo Totem del potere (2002), Coppia regale, Doppio ritratto (2004) and Composizione vichinga (2005).

3)The disorienting and almost hypnotic effect of the industrial paint spra- yed on the rough stone reaches the acme in the works where the bearing structure is made of metal and plays an apparently gregarious role: Quadro alla finestra (2002), Quadrati a dondolo (2003), Composizione con rettangolo (2005).

4)In some of the works the relationship between the materials plays on the equilibrium of formal invention and technical solutions. This is the case in Composizione con obelisco, Meridiana, Guardiani dell’Eden(2004) which genially, when turned up side down, become L’albero del bene e del male (2005) and then Diapason (2006).

5)When the theme of a natural element is intruded upon, like a twisted branch, the coloured porphyry becomes the fulcrum about which the figurative illusion rotates: Germogli (2004), Danza del cobra (2005), Violinista dell’universo (2006).

6)The boundary between these two art forms is very labile - such that a few of his works could be defined as “paint-sculptures”- especially when the chromatic contribution becomes fundamental in the definition of the subject, like in these recent works: Grande vela, Maternità cosmica and, above all, in Danzatrici del cielo (2006).


7)There is no lack of aspiration to neomonumentality, present in almost all worthy sculptors. The third dimension loves open spaces, in fact it aims to interact with the urban context. Works like Olocausto (2003) and Omaggio a Claude Monet (2006) could very well appear in public areas and be visual sights of great intensity.

All things considered, the encounter with Francesco Rampin reveals an auto- nomous personality, attentive not only to the events of history but also present day, involved in significant epochal changes, yet solidly bonded to the correct interpretation of the immutable motives of art that is the game of Snakes and Ladders, dreadfully serious even when it clothes the hard mountain rock in the guise of a colourful smile.

 

 

Venezia, Marzo 2008                                                                                                                                                                                              Franco Batacchi

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